27 luglio 2021 – da Mauro Rotondi : L’ITALIA PUO’ RIPARTIRE DAL SOGNO EUROPEO, LA NAZIONALE UN MODELLO DA SEGUIRE

L’ITALIA PUO’ RIPARTIRE DAL SOGNO EUROPEO, LA NAZIONALE UN MODELLO DA SEGUIRE

La vittoria dell’Italia ai recenti Europei di calcio ci ha fatto vivere notti magiche da fissare per sempre nella nostra memoria regalandoci l’immagine di un paese desideroso di aggregarsi intorno a un sogno per uscire da un periodo difficile. Un successo storico atteso da 53 anni e un’esplosione di gioia collettiva dopo tante sofferenze.

Si dice che la Nazionale di calcio sia la metafora del proprio paese, magari non è esattamente così, di sicuro ci assomiglia. I nostri successi calcistici passati non hanno quasi mai suscitato apprezzamenti all’estero; ci rimproverano da sempre un gioco speculativo, un tatticismo esasperato per sfruttare le debolezze altrui e un uso fastidioso di furbizia e provocazioni. Da lì una serie di luoghi comuni sul nostro paese. Per non parlare delle immancabili polemiche nostrane alla vigilia di ogni manifestazione.

I successi del Mundial 1982, avvenuto tra anni di piombo, P2 e calcio scommesse nonché quello del 2006, maturato in un contorno economico e sportivo anch’esso incandescente, sono stati la reazione d’orgoglio a polemiche e avversità. Stavolta è successo il contrario: la Nazionale di Mancini ha ribaltato gli stereotipi del nostro calcio e del nostro paese; la squadra propone e impone il bel gioco sul campo, esalta il collettivo in cui tutti i singoli possono esprimersi al massimo, soffre quando c’è da soffrire. In finale, davanti al pubblico ostile degli arroganti inglesi, subisce il gol a freddo ma trova la forza di ribaltare una situazione complicata giocando bene. Stavolta sono gli inglesi, tra fischi al nostro inno e medaglie d’argento sfilate dal collo, a dimenticare la tanto sbandierata sportività.

Abbiamo visto una Nazionale capace di stringere tutti intorno a un sogno e stupire per la semplicità, lontana da ogni polemica. La squadra ha mostrato i valori autentici dello Sport e della vita: amicizia sincera tra giocatori, serenità e allegria in campo e fuori, consapevolezza dei mezzi e della forza del gruppo, a cui non serve un leader ma è il gruppo stesso a essere leader. Gli abbracci tra Vialli e Mancini, le parate di Donnarumma, gli inossidabili Chiellini e Bonucci, le cavalcate di Chiesa, i rigori contro Spagna e Inghilterra, i giocatori che cantano Notti Magiche del 1990 di Bennato e Nannini sono tra le immagini indelebili di quest’estate italiana da consegnare alla memoria.

Il documentario “Sogno azzurro”, girato dietro le quinte della squadra durante il mese europeo, racconta bene un’armonia e uno spirito di squadra difficili da cogliere nel nostro paese. Come hanno scritto i giornali stranieri applaudendo la nostra vittoria, non è azzardato paragonare Mancini e i giocatori ad artefici di un nuovo rinascimento italiano e di un nuovo umanesimo. La Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi così male. Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo. Una vittoria europea porta ottimismo, gli economisti dicono valga lo 0.7 di PIL in più. In fondo, e i complimenti ricevuti da tutto il mondo lo testimoniano, ci aspettavano tutti con la nostra spensieratezza. Gli azzurri possono ora diventare un esempio anche per il paese; abbiamo l’opportunità di prendere l’esempio trasformando le difficoltà del momento in voglia di rinascita e nuovo entusiasmo. Come ha detto mister Mancini ai giocatori prima della finale: dipende tutto da noi.

Mauro Rotondi

Consigliere PD

Questa volta è il paese a volere assomigliare alla nazionale: seguire i valo

la vittoria che mancava a una generazione di calciatori, elli in campo e quelli in panchina, suggellata dall’abbraccio tra Mancini e Vialli in lacrime. Ed è il segno di rinascita che aspettavamo dopo il periodo peggiore delle nostre vite, come fu il Mondiale 1982 dopo gli anni di piombo. Difficile dire chi ne avesse più bisogno, se gli azzurri o noi.

Chi tra gli azzurri non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli ultimi dieci anni (a parte lo scudetto dell’Inter di Barella). Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci, autori di una partita strepitosa, quasi come quella di Donnarumma — era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.

Ma tutti quanti noi sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro. Molti italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi; e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un mese fa non se l’aspettava nessuno.

Non è forse una grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva… Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a ricevere la medaglia Spinazzola con le stampelle. Professionisti, amici, compatrioti (bello vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente Sergio Mattarella; e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).

Non si diventa mai campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In questo mese, la Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi così male. Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.

Per un popolo che non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un Dickens e un Tolkien, il calcio è il vero romanzo popolare. E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.

L’Europeo 1968 incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante; adesso lo è.

L’Italia è campione d’Europa

Con il Mondiale 1982 l’Italia cambiò umore. Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo pagato cara; ma fu anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti insieme.

Il Mondiale 2006 fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se stesso, ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita, questo dipende soltanto da noi.

È la vittoria che mancava a una generazione di calciatori, quelli in campo e quelli in panchina, suggellata dall’abbraccio tra Mancini e Vialli in lacrime. Ed è il segno di rinascita che aspettavamo dopo il periodo peggiore delle nostre vite, come fu il Mondiale 1982 dopo gli anni di piombo. Difficile dire chi ne avesse più bisogno, se gli azzurri o noi.

Chi tra gli azzurri non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli ultimi dieci anni (a parte lo scudetto dell’Inter di Barella). Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci, autori di una partita strepitosa, quasi come quella di Donnarumma — era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.

Ma tutti quanti noi sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro. Molti italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi; e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un mese fa non se l’aspettava nessuno.

Non è forse una grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva… Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a ricevere la medaglia Spinazzola con le stampelle. Professionisti, amici, compatrioti (bello vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente Sergio Mattarella; e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).

Non si diventa mai campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In questo mese, la Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi così male. Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.

Per un popolo che non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un Dickens e un Tolkien, il calcio è il vero romanzo popolare. E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.

L’Europeo 1968 incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante; adesso lo è.

Con il Mondiale 1982 l’Italia cambiò umore. Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo pagato cara; ma fu anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti insieme.

Il Mondiale 2006 fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se stesso, ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita, questo dipende soltanto da noi.

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