L’ITALIA
PUO’ RIPARTIRE DAL SOGNO EUROPEO, LA NAZIONALE UN MODELLO DA
SEGUIRE
La
vittoria dell’Italia ai recenti Europei di calcio ci ha fatto
vivere notti magiche da fissare per sempre nella nostra memoria
regalandoci l’immagine di un paese desideroso di aggregarsi intorno
a un sogno per uscire da un periodo difficile. Un successo storico
atteso da 53 anni e un’esplosione di gioia collettiva dopo tante
sofferenze.
Si
dice che la Nazionale di calcio sia la metafora del proprio paese,
magari non è esattamente così, di sicuro ci assomiglia. I nostri
successi calcistici passati non hanno quasi mai suscitato
apprezzamenti all’estero; ci rimproverano da sempre un gioco
speculativo, un tatticismo esasperato per sfruttare le debolezze
altrui e un uso fastidioso di furbizia e provocazioni. Da lì una
serie di luoghi comuni sul nostro paese. Per non parlare delle
immancabili polemiche nostrane alla vigilia di ogni manifestazione.
I
successi del Mundial 1982, avvenuto tra anni di piombo, P2 e calcio
scommesse nonché quello del 2006, maturato in un contorno
economico e sportivo anch’esso incandescente, sono stati la
reazione d’orgoglio a polemiche e avversità. Stavolta è successo
il contrario: la Nazionale di Mancini ha ribaltato gli stereotipi del
nostro calcio e del nostro paese; la squadra propone e impone il bel
gioco sul campo, esalta il collettivo in cui tutti i singoli possono
esprimersi al massimo, soffre quando c’è da soffrire. In finale,
davanti al pubblico ostile degli arroganti inglesi, subisce il gol a
freddo ma trova la forza di ribaltare una situazione complicata
giocando bene. Stavolta sono gli inglesi, tra fischi al nostro inno e
medaglie d’argento sfilate dal collo, a dimenticare la tanto
sbandierata sportività.
Abbiamo
visto una Nazionale capace di stringere tutti intorno a un sogno e
stupire per la semplicità, lontana da ogni polemica. La squadra ha
mostrato i valori autentici dello Sport e della vita: amicizia
sincera tra giocatori, serenità e allegria in campo e fuori,
consapevolezza dei mezzi e della forza del gruppo, a cui non serve un
leader ma è il gruppo stesso a essere leader. Gli abbracci tra
Vialli e Mancini, le parate di Donnarumma, gli inossidabili
Chiellini e Bonucci, le cavalcate di Chiesa, i rigori contro Spagna e
Inghilterra, i giocatori che cantano Notti Magiche del 1990 di
Bennato e Nannini sono tra le immagini indelebili di quest’estate
italiana da consegnare alla memoria.
Il
documentario “Sogno azzurro”, girato dietro le quinte della
squadra durante il mese europeo, racconta bene un’armonia e uno
spirito di squadra difficili da cogliere nel nostro paese. Come hanno
scritto i giornali stranieri applaudendo la nostra vittoria, non è
azzardato paragonare Mancini e i giocatori ad artefici di un nuovo
rinascimento italiano e di un nuovo umanesimo. La
Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi
così male.
Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo. Una
vittoria europea porta ottimismo, gli economisti dicono valga lo 0.7
di PIL in più. In fondo, e i complimenti ricevuti da tutto il mondo
lo testimoniano, ci aspettavano tutti con la nostra spensieratezza.
Gli azzurri possono ora diventare un esempio anche per il paese;
abbiamo l’opportunità di prendere l’esempio trasformando le
difficoltà del momento in voglia di rinascita e nuovo entusiasmo.
Come ha detto mister Mancini ai giocatori prima della finale: dipende
tutto da noi.
Mauro
Rotondi
Consigliere
PD
Questa
volta è il paese a volere assomigliare alla nazionale: seguire i
valo
la
vittoria che mancava a una generazione di calciatori,
elli in campo e quelli in panchina, suggellata dall’abbraccio
tra Mancini e Vialli in lacrime.
Ed è
il segno di rinascita che aspettavamo dopo il periodo peggiore delle
nostre vite,
come fu il Mondiale 1982 dopo gli anni di piombo. Difficile dire chi
ne avesse più bisogno, se gli azzurri o noi.
Chi tra gli azzurri
non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli
ultimi dieci anni (a parte lo
scudetto dell’Inter di Barella).
Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci,
autori di una partita strepitosa, quasi come quella di
Donnarumma
— era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le
due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.
Ma tutti quanti noi
sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro.
Molti
italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi;
e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un
mese fa non se l’aspettava nessuno.
Non è forse una
grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato
europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel
tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che
vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva…
Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a
ricevere la medaglia Spinazzola
con le stampelle.
Professionisti, amici, compatrioti (bello
vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente
Sergio Mattarella;
e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon
riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).
Non si diventa mai
campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il
calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale
finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In
questo mese, la
Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi
così male.
Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.
Per un popolo che
non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un
Dickens e un Tolkien,
il calcio è il vero romanzo popolare.
E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.
L’Europeo 1968
incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia
di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte
riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non
cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante;
adesso lo è.
L’Italia
è campione d’Europa
Con il Mondiale
1982 l’Italia cambiò umore.
Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava
l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo
e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa
che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo
pagato cara; ma fu
anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti
insieme.
Il Mondiale 2006
fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se
stesso,
ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria
poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se
anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento
oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita,
questo dipende soltanto da noi.
È la
vittoria che mancava a una generazione di calciatori,
quelli in campo e quelli in panchina, suggellata dall’abbraccio
tra Mancini e Vialli in lacrime.
Ed è
il segno di rinascita che aspettavamo dopo il periodo peggiore delle
nostre vite,
come fu il Mondiale 1982 dopo gli anni di piombo. Difficile dire chi
ne avesse più bisogno, se gli azzurri o noi.
Chi tra gli azzurri
non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli
ultimi dieci anni (a parte lo
scudetto dell’Inter di Barella).
Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci,
autori di una partita strepitosa, quasi come quella di
Donnarumma
— era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le
due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.
Ma tutti quanti noi
sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro.
Molti
italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi;
e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un
mese fa non se l’aspettava nessuno.
Non è forse una
grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato
europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel
tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che
vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva…
Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a
ricevere la medaglia Spinazzola
con le stampelle.
Professionisti, amici, compatrioti (bello
vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente
Sergio Mattarella;
e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon
riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).
Non si diventa mai
campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il
calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale
finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In
questo mese, la
Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi
così male.
Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.
Per un popolo che
non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un
Dickens e un Tolkien,
il calcio è il vero romanzo popolare.
E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.
L’Europeo 1968
incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia
di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte
riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non
cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante;
adesso lo è.
Con il Mondiale
1982 l’Italia cambiò umore.
Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava
l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo
e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa
che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo
pagato cara; ma fu
anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti
insieme.
Il Mondiale 2006
fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se
stesso,
ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria
poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se
anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento
oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita,
questo dipende soltanto da noi.